Disclaimer: con questo articolo non s’intende entrare nel merito della fede religiosa, Anemone sostiene l’autodeterminazione sotto tutti i punti di vista e lavora per la costruzione di una società libera, dove le persone non sono costrette ad aderire a un credo piuttosto che a un altro o a nessuno. Sosteniamo anche che la scelta è tale ed è libera quando si hanno tutte le informazioni necessarie per comprendere e ci si pone rispetto alle questioni con apertura al dialogo.
Quello che si propone di seguito è una riflessione sul ruolo che la storia della passione e della resurrezione di Cristo e, più in generale, il concetto di sacrificio giocano nell’immaginario collettivo della società occidentale che possiamo definire “cristiana” per cultura, vicissitudini storiche e dati statistici.
Quanto incide la storia del sacrificio dell'”Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” nella visione colpevolizzante che abbiamo delle vittime?
Per rispondere con precisione a questa domanda bisogna fare un salto molto indietro nel tempo.
Il genere umano “santifica” la violenza fin dagli albori della civiltà: per sostenere l’impatto emotivo dell’uccisione cruenta dell’animale di cui dovevano cibarsi, i nostri progenitori avevano la necessità di dare a quel gesto un significato spirituale. Per alleggerire la “colpa” di essere carnefici attribuivano alla vittima un ruolo catartico, la celebravano imprimendone l’immagine sulla roccia. Il fatto stesso che le scene di caccia e uccisione degli animali costituiscano i soggetti delle primissime espressioni artistiche dell’umanità ci dà la dimensione dell’importanza e del carattere di urgenza di questo processo.
Così si origina il sacrificio (dal latino sacrum ficio, appunto, “rendo sacro”), un atto basato su un’ambivalenza simbolica di fondo: è criminale uccidere la vittima perché è sacra, ma è la sua stessa uccisione che la rende tale.
Tuttavia la santificazione genera il ribaltamento dei ruoli, nella dinamica della violenza, tra carnefice e vittima: la responsabilità e il peso dell’azione violenta, dell’uccisione, passa, come in un gioco di specchi, da chi la commette a chi la subisce. Come?
Il valore del sacrificio, del rapporto tra la morte dell’animale e la vita dell’umano, è diretto, lineare, quando si tratta di nutrimento materiale nelle comunità primitive: l’animale viene ucciso per assicurare la sopravvivenza degli umani. Man mano che la civiltà si evolve esso perde quasi del tutto la sua componente materiale e diventa un nodo simbolico fondamentale nel costume, con un impatto importante nell’organizzazione sociale.
Quando si eleva il sacrificio ad azione prettamente spirituale, religiosa, gli animali vengono eviscerati per leggere auspici o influenzare il fato, sgozzati per essere offerti a divinità in cambio di benevolenza, diventano “capri espiatori” investiti di un potere salvifico molto maggiore: la responsabilità di morire per preservare la vita di un numero sempre più cospicuo di individui.
La caratteristica della “santità”, con la complessificazione delle civiltà e delle religioni, diventa indissolubilmente legata all’attribuzione di un ulteriore valore morale alla vittima: l’innocenza. L’animale, nella visione specista di gran parte delle culture, è meno senziente dell’essere umano e, pertanto, un “innocente inconsapevole”: il che lo rende in alcuni contesti più degno di essere sacrificato, in altri “insufficiente”.
Quello tra il sacrificio animale e il sacrificio umano non è un vero e proprio passaggio, piuttosto una convivenza contemporanea, a diverse latitudini e in diversi periodi storici in cui i criteri della scelta della vittima rientrano costantemente nella stessa ambivalenza di cui si parlava precedentemente.
Tuttavia mentre tra gli animali si tende a sacrificare esemplari di specie care agli umani come mucche, capre, pecore e cavalli, nella platea di vittime umane si evince una grande eterogeneità fatta di schiavi, re, vergini, prostitute, prigionieri di guerra, figli, figlie, madri, padri, sacerdoti etc.
Certamente il significato simbolico si arricchisce e di complessifica dal bisonte preistorico ucciso per il nutrimento di una tribù, al cavallo ucciso per ingraziarsi gli dei e riscattare la polis dalla cattiva sorte, alla figlia del re sacrificata sull’altare della guerra di Troia, fino al figlio di Dio che si è fatto uomo e si offre in sacrifico per tutti, per riscattarli dal peccato originale. Possiamo intendere quindi Gesù Cristo come il risultato di un processo di sublimazione della vittima, che assume su di sé la colpa universale e sacrifica consapevolmente se stessa per redimere l’umanità intera attraverso il suo dolore, la sua umiliazione, la sua agonia e la sua morte.
L’accettazione del suo fardello, la retorica del “porgi l’altra guancia” e del “perdona loro perché non sanno quello che fanno” sanciscono lo “scivolamento” dell’intenzionalità consapevole dell’azione violenta da chi la compie a chi la subisce: non è più il carnefice il soggetto attivo del gesto violento, il portatore dell’intento distruttivo, ma la vittima che sceglie di immolarsi, di subire.
Questo ribaltamento ha una duplice funzione: il carnefice viene assolto, passando in secondo piano in una narrazione in cui è semplice strumento di un volere più alto, la vittima fugge il suo vissuto angoscioso di impotenza guardando la situazione attraverso una maschera di onnipotenza.
Il cosiddetto “victim blaming”, ovvero la colpevolizzazione delle persone che subiscono violenza, è l’altra faccia della medaglia di tale sistema di pensiero per cui di fronte ad un atto violento siamo spesso portati a concentrarci, ad esempio, sul motivo per cui la persona che lo ha subito non se n’è sottratta.
Frasi come “se l’è cercata”, “perché non ha trovato un modo per andare via?”, “perché non ha chiesto aiuto?” sono la chiara espressione di questo meccanismo.
Da una parte si nobilita la vittima attraverso il sentimento della pietà, dall’altra, nel momento in cui essa si ribella e rivendica la verità del suo aver subito azioni la cui responsabilità è altrove, viene immediatamente riportata alla sua posizione di vittima, colpevole di non aver aderito al modello di silenziosa accettazione del proprio nobile destino.
Gaia Di Pierro, Presidente